DIRITTO PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA – Gli importi delle retribuzioni, dei profitti e degli altri valori derivanti da attività di lavoro o lucrative.

DIRITTO PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA – Gli importi delle retribuzioni, dei profitti e degli altri valori derivanti da attività di lavoro o lucrative.

Un’attenzione separata viene prestata agli importi delle retribuzioni, dei profitti e di altri valori derivanti da attività di lavoro e da altre attività lucrative nel § 711 paragrafo 2 del codice civile. Questi redditi, complessivamente intesi, rappresentano la fonte più comune dei patrimoni. Alcuni aspetti dell’acquisizione di questi beni sono stati associati a problemi interpretativi di lunga data. La base di tali problemi era la questione se il diritto al pagamento del salario costituisca già parte della comunione legale o lo fosse solo, per esempio il profitto o la retribuzione una volta incassati. A questo si collega il problema di sapere quando il reddito o la retribuzione in quanto tale entrasse a far parte della proprietà comune dei coniugi. Il fondamento della precedente argomentazione si fondava su una giurisprudenza più antica, emessa ancor prima dell’istituto della comunione legale dei coniugi, secondo la quale nella comunione rientrano solo la retribuzione pagata e percepita, ma non il diritto alla retribuzione. I diritti e gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro non possono essere considerati patrimonio comune del lavoratore e del suo coniuge, anche solo con riferimento al carattere personale della prestazione lavorativa del dipendente. Dalla giurisprudenza si è dedotto che se il lavoratore deve svolgere personalmente la prestazione lavorativa, ciò, tra l’altro, preclude ai coniugi la titolarità di diritti e obblighi solidali derivanti dal rapporto di lavoro instaurato da uno di loro. Di questo concetto, da tempo accettato, si tiene sostanzialmente conto anche nell’art. 711 comma 2 del codice civile. Gli importi dei guadagni, salari, stipendi, profitti e altri valori derivanti dal lavoro e da altre attività lucrative diventano parte della proprietà comune nel momento in cui il coniuge che ha contribuito a ottenerli (cioè li ha ricevuti principalmente come ricompensa per il lavoro svolto ), ha acquisito la possibilità di disporne. Il momento dal quale nasce la possibilità di disporne (disposizione) è senza dubbio il momento del loro pagamento. Se una parte del guadagno consiste in pagamenti in natura (ad esempio cibo, carburante, buoni per l’acquisto di beni, materiali, ecc.), tale momento sarà solitamente il momento della consegna della cosa. La situazione è un po’ più complicata se i fondi vengono trasferiti solo su un conto bancario. In questa forma, lo stipendio pagato costituisce solo un credito nei confronti della banca sul cui conto sono depositati i fondi. Già da questo momento, però, la persona avente diritto a disporre del conto ha il diritto di disporre di questi fondi, cioè in particolare di prelevarli in contanti o di trasferirli in forma non contante. Allo stesso tempo, non è chiaro se entrambi i coniugi abbiano questo diritto insieme o solo il coniuge che ha causato l’acquisizione di questi fondi. L’autorizzazione alla disposizione del conto risulta dal relativo accordo sul conto. In linea di principio, però, si tratta del titolare del conto, o di una persona da lui autorizzata. Se il conto è aperto per più persone (cioè per entrambi i coniugi), ciascuno di essi è nella posizione titolare del conto. Sebbene la legge parli del titolare del conto, non è possibile considerare il conto come parte del patrimonio comune dei coniugi. Il conto non ha proprietà nel senso giuridico del termine, quindi non è un bene appartenente alla comunione. Se il conto non è costituito per l’altro coniuge come comproprietario del conto, e se questo coniuge non è nemmeno nella posizione di persona autorizzata (tipicamente con modello di firma avente i requisiti di procura) secondo i termini del contratto di conto, non avrà la possibilità di disporre dei fondi presenti sul conto, ma che devono comunque essere considerati parte della comunione legale. Se ii fondi che appartengono alla comunione legale vengono depositati sul conto presso l’istituto finanziario, ciò non autorizza il coniuge del titolare del conto a gestire i fondi di questo conto. Il coniuge del titolare non può quindi pretendere nei confronti della banca di essere autorizzato a gestire i fondi del conto. Una controversia sull’accesso ai fondi del conto è quindi solo una controversia tra i due coniugi, non una controversia con la banca. I coniugi dovrebbero procedere come in caso di disaccordo sulla gestione dei beni comuni. Se non è possibile risolvere la situazione mediante accordo, il coniuge del titolare del conto può adire il tribunale e far valere i suoi diritti direttamente nei confronti dell’altro coniuge. Un po’ estraneo alla fattispecie in esame è il caso in cui i fondi guadagnati da uno dei coniugi vengono trasferiti dal datore di lavoro direttamente sul conto esclusivo dell’altro coniuge. In questo caso non sarà soddisfatta la condizione che uno dei coniugi che hanno contribuito all’acquisizione di tale reddito abbia acquisito la possibilità di disporne contestualmente al trasferimento su tale conto. Tuttavia, dalla logica della questione e dal significato complessivo della disposizione, tali fondi possono verosimilmente essere considerati parte del patrimonio comune dei coniugi. Almeno uno dei coniugi ha la possibilità di disporre dei fondi. Ai sensi dell’articolo 711, comma 1, del codice civile, anche la corresponsione della pensione deve essere subordinata. Anche se la legge non menziona esplicitamente questa possibilità e la pensione esula dal quadro più ristretto dei valori ricavati dal lavoro o da altra attività remunerata, la sua natura generale e la sua finalità di fonte di reddito regolare e ricorrente per il coniuge in una determinata fase della vita la sua vita o la sua situazione vitale soddisfa obiettivi simili a quelli di un salario o di un reddito derivante da un’altra attività lucrativa. Dovrà essere preso in considerazione anche il pagamento delle prestazioni sociali e di malattia. Questa conclusione corrisponde anche alle conclusioni della giurisprudenza e della dottrina giuridica esistenti