I proventi dei reati tributari e il reato di autoriciclaggio

I proventi dei reati tributari e il reato di autoriciclaggio

Il codice penale italiano punisce la condotta di chi, avendo commesso un reato, decida poi di impiegare, sostituire o trasferire in attività economiche, imprenditoriali, finanziarie o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità che ha potuto ottenere attraverso la commissione di tale reato. Reato che viene detto  reato-presupposto perché, a livello temporale e logico, si colloca precedentemente rispetto al reato di autoriciclaggio.

In sostanza chi commette il reato-presupposto, in una seconda fase autoricicla i proventi del reato-presupposto (invece nel reato di riciclaggio tale incombenza viene svolta da un soggetto terzo diverso dall’autore del reato presupposto).

Non solo: per integrare il reato di autoriciclaggio è importante che l’impiego, la sostituzione o il trasferimento dei proventi del reato siano svolti in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Ci si chiede se un risparmio di spesa ottenuto grazie ad un reato tributario (evasione fiscale), poi utilizzato dall’evasore, possa integrare un autoriciclaggio.

Per esempio: l’amministratore di una società che commette il reato tributario di omesso versamento dell’Iva, lasciando tale profitto nella disponibilità della società, commette anche autoriciclaggio?

Il problema nasce dal fatto che il profitto, il risparmio di spesa, non risulta “individuabile” all’interno della sfera patrimoniale del soggetto. Detto altrimenti nei reati tributari accade che spesso i profitti siano solo un risparmio di spesa che, generando una plusvalenza illecita, può essere facilmente re-impiegata nell’ambito della società da cui origina. Risulta quindi difficile identificare l’oggetto materiale del delitto di autoriciclaggio.

Certamente rientra fra i reati presupposto dell’autoriciclaggio anche quello di frode fiscale. Ipotizziamo che l’amministratore della s.r.l. X ometta di versare l’Iva per un importo di 160.000 euro nel 2017 e successivamente reimpieghi tale somma nella medesima società in più riprese: per esempio 60.000 euro nel 2018, 100.000 euro nel 2019. Le condotte poste in essere nel 2018 e nel 2019 potrebbero essere penalmente rilevanti avendo a mente il reato di riciclaggio tuttavia si ripropone il problema posto all’inizio: quello di provare che proprio quella somma che era stata il risparmio di spesa sia stata reimpiegata nel modo e nei tempi suddetti e soprattutto che vi sia stata condotta dissimulatoria (il reato parla di “concretamente”).

Un altro aspetto da considerare è che l’amministratore può aver utilizzato il profitto del delitto tributario per degli scopi non solo leciti, ma addirittura imposti dalla legge come ad esempio pagare altri tributi, o per pagare i fornitori, le banche, i propri dipendenti. Nonostante, quindi, possano essere integrati i presupposti soggettivi (coscienza e volontà di impiegare, trasferire o sostituire beni di origine illecita) ed oggettivi (ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa del denaro) del reato di autoriciclaggio, in alcuni casi punire il soggetto potrebbe sembrare una esagerazione.

Alcuni osservatori sottolineano come non si coglierebbe, cioè, il disvalore della condotta posta in essere nel caso in cui l’amministratore abbia agito al solo fine di salvare la società dal fallimento o di rispettare altre scadenze fiscali o le obbligazioni sociali assunte e già scadute. Un conto è reimpiegare il profitto del reato tributario nella propria società al fine di arricchirsi a scapito del fisco e facendo concorrenza sleale alle altre imprese, un altro conto è essere “costretti” a reimpiegare il profitto illecito ottenuto per mancanza di liquidità e per onorare altri debiti.

Brno, 20.8.2019